Flavio Manganello, Università La Sapienza parla del diffondersi dell’uso dell’e-portfolio come strumento personale (auto-riflessione), didattico (apprendimento attivo e assessment) e professionale (documentazione). Il ricorso a questo approccio è tanto più significativo quanto più si parla di informal learning. Viene citato Jay Cross secondo il quale l’apprendimento formale non copre più del 10 – 20% della conoscenza in nostro possesso. Vengono citati due progetti di e-portfolio: il MOSEP che coinvolge adolescenti che hanno abbandonato l’istruzione formale ed il cui scopo è di accrescere il senso di auto-stima degli stessi ed il progetto neozelandese MAHRA.
Stefano Cacciamani, Università delle Valle d’Aosta, dopo aver rilevato in letteratura il “valore” attribuito al senso di comunità ai fini della qualità dell’esperienza di apprendimento, riferendosi al modello di McMillan e Chavis (1986) ha costruito un questionario per rilevare il senso di comunità nei corsi on-line. Un possibile uso di questo strumento è il monitoraggio dell’evoluzione del gruppo in apprendimento per poter retro-agire sulle dimensioni che ne possono aiutare lo sviluppo.
Pietro Di Domenicantonio, responsabile sviluppo de “L’Osservatore Romano, racconta come la “comunità” degli addetti alla stampa del quotidiano sparsi in diversi angoli del mondo condivide e sviluppa la propria esperienza professionale del lavorando nel solco delle “comunità di pratica” di Wenger. L’approccio, reso possibile dalla diffusione di internet è risultato essere funzionale all’esigenza di comunicare, condividere e collaborare tra soggetti fisicamente lontani ma “vicini” attraverso la condivisione di una stessa responsabilità operativa. Strumenti usati: mailing-list, forum, chat, repository di documenti su procedure e buone pratiche professionali.
Questi, tra quelli che io ho potuto ascoltare, gli interventi più significativi. Certamente ce ne sono stati tanti altri interessanti ed intelligenti nelle sessioni parallele cui, non avendo (ancora) il dono dell’ubiquità, non ho potuto seguire pur “saltellando” tra le tre sale in cui si svolgeva il congresso.
Ho ascoltato, anche, parecchie ovvietà. Racconti di esperienze assolutamente uguali a tante altre, riflessioni metodologiche rimasticature, non sempre pertinenti, di concettualizzazioni classiche, statistiche di fruizione prive di alcuna informazione significativa, ecc...
Forse la selezione dei paper “a maglie larghe” (90 ammessi su 110 presentati), fatta per dar modo a tanti di far conoscere la propria esperienza, ha penalizzato la qualità del tutto.
Ma, soppesando il pro ed il contro e considerando che si è trattato del congresso di una “comunità” scientifico-pratica, forse va bene così. Con maglie più strette, forse, avrebbero segato anche il mio contributo.
Forse il buonismo e il volemmose bbene mi hanno ultimamente contagiato, o forse anch'io sono contento di non essere stato "segato"...
RispondiEliminaPerò al tuo "va bene così", almeno nel caso del Congresso Sie-l, toglierei il "forse".
Cioè in fondo va veramente bene che i componenti di una comunità (e dai, cos'è, una fissazione?) si raccontino (un'altra fissazione ;-)) in una sede comune e mettano a confronto le esperienze. Anche se queste non sono così significative, va bene lo stesso. Anzi, qualcuno potrebbe forse "prendere meglio le misure" del proprio lavoro, confrontandolo con altri simili? Sarebbe anche questo un buon risultato.
In conclusione penso che non sia giusto mettere maglie strette al congresso di un'associazione come la nostra.
Cosa diversa sarebbe se si proponessero eventi di livello più alto, internazionali e con intenti più "scientifici". Però magari diventerebbero eventi a pagamento salato, con "invitati eccellenti" e allora... forse, emmo za daeto ("abbiamo già dato", per i non genovesi..), vero?
;-)