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giovedì 19 marzo 2009

Skifidol-puzz, le figurine con la puzza piu' fetente





Qualcosa che definire raccapricciante è poco. Spero che non abbiate mangiato da poco perchè .... Leggo dall'ANSA di un'ora fa:

C'é Mirkone Marcione, Otto Sboccadibotto, Cristiano Vespasiano e, tra gli altri, Bruce Pus. Sono le Skifo Card, l'ultima moda tra i giovanissimi: figurine raffiguranti orrendi mostri che, se strofinate, emanano odori nauseabondi. ................ La Gedis Edicola, che le produce, ha da poco realizzato 150 nuovi Skifidol "ancora più fetenti e sempre più potenti". "Sono tanti personaggi tutti da collezionare", è la presentazione della casa editrice, che aggiunge: "sono assai maleducati, ma ti fanno scompisciare". In vendita al prezzo di un euro, ogni pacchetto contiene quattro figurine, compresa una Skifo-Puzz contrassegnata dal disegno stilizzato di una maschera anti-gas. Una strofinata e la carta emana odori di vario tipo. "Con le Skifo-Cards puoi ora scatenarti veramente - si legge sul sito internet di queste originali carte - e sfidare i tuoi amici con la puzza più fetente...".

E ci dovremo preoccupare dei nostri ragazzi che in classe usano il telefonino?
E di questi tizi tutti impegnati a produrre coltura, cosa ne facciamo? Li mettiamo al muro? Indignarsi è troppo poco

venerdì 6 marzo 2009

Le LIM al CREMIT - cosa ho imparato

Ho ascoltato con attenzione (e con il mio abituale atteggiamenmto critico) tutte le presentazioni ed ho tratto i seguenti insegnamenti:
- le LIM sono un fiume in piena. Innarrestabile
- converrebb, come sempre e come è giusto, la solita corsa per occupare le posizioni migliori (e più redditizie) tanto per chi piazza la macchina che per chi offre servizi
- dato che ci sono, si cerca di dare loro un senso (dato più evidente) e su questo tutte le nostre menti migliori ci stanno dando, per fortuna, dentro
- questo "miglioramentO" della didattica lo si cerca (per ora senza grandi risultati, pare) nell'alveo del costruttivismo
- si evidenzia un uso prevalente che viene chiamato di tipo "1.0" e si auspica una evoluzione verso un uso "2.0"
- se ne parla nella prospettiva di un uso come strumento che dovrebbe diventare "normale", come dotazione dell'aula, come strumento per il docente
- ci si accorge che da sola, la LIM non porta tanto lontano e si inzia a vederla collocata all'interno di un setting, concettuale ma anche tecnologico, più ampio e ricco
- i suggerimenti "intelligenti" sull'uso evidenziano utilizzi che si possono fare TUTTI anche senza la LIM
- la LIM come "pretesto" per innovare la didattica e più in generale le pratiche scolastiche. Un pretesto piuttosto costoso.

Super-conclusione: è chiaro che il problema non è la tecnologia, la sua disponibilità, la capacità di usarla (nulla di quanto vede nelle LIM la soluzione, può essere affrontato con altre modalità e con altri strumenti e non pare proprio che le LIM possano offrire di più e di meglio se non in qualche caso ben delimitato).
Il vero problema è la capacità del nostro sistema educativo di migliorarsi innovandosi. Ed in questa direzione non vedo segnali tanto incoraggianti. Il puntare sulle LIM mi pare tanto frutto di un pensiero approssimativo alla soluzione del vero problema.

Super-super-conclusione: la LIM? meglio averla che non averla. Tanto, i problemi ci sono sempre.

venerdì 16 gennaio 2009

Nel posto sbagliato





Giorni fa parlavo con un collega ingegnere informatico (uno dei pochi) molto attento anche alle problematiche pedagogico-didattiche connesse con l’uso didattico delle tecnologie; parlavamo su come si stia orientando il mercato. Lo si faceva perché da tempo stiamo riflettendo sul se e sul come proporre qualcosa di diverso dei soliti e stantii LO (la sua azienda fa un buon business con i LO) in quanto lui stesso ne vede i limiti e ritiene che il futuro delle tecnologie didattiche sarà oltre i LO.
Sconsolato mi raccontava che ai suoi committenti, quelli che prendono le decisioni e sborsano di tasca propria, non gliene importa nulla se quello che pagano serve a qualcosa. Pare, che dopo aver fatto un sostanzioso investimento, l’unica cosa che veramente conta è che si possa scoprire che si sia trattato di un investimento sbagliato. Quindi, meglio non ..... andare a vedere l’effetto che fa.
Altra questione: cosa attira l’interesse di questi compratori? Nulla quanto gli effetti magici della tecnologia: cose che si muovono, che cambiamo; cose belle da vedere e da manipolare; schiacci un pulsante e succede di tutto….. Sembrano proprio dei bambinoni sempre attratti dal gioco.
E dell’apprendimento? Nulla, proprio nulla.
Ed allora cosa ci stiamo a fare qui noi che ci scervelliamo alla ricerca di metodi efficaci, di approcci utili, che ci domandiamo di continuo: ma quello che sto facendo serve a qualcosa?
A volte, ho la sensazione di stare proprio nel posto sbagliato …..

giovedì 15 gennaio 2009

Le offese agli insegnanti



Leggo nelle lettere di Repubblica di oggi quella di una professoressa di Treviso che reagisce all’ennesimo insulto di Brunetta e presenta una argomentazione che fa capire quanto orribili siano le parole del ministro. Cito: “con le sue osservazioni il ministro incrina la fiducia di alunni e famiglie, demolisce la credibilità
che noi insegnanti , in qualche caso, duramente cerchiamo di guadagnare: non rende un buon servizio ai dipendenti, non lo rende ai giovani ed alle loro famiglie, non lo rende neppure a sé stesso … “ e parlando di scuole difficili, in ambienti degradati dove non è facile fare l’insegnante, afferma “quelle parole potrebbero lasciare un segno: provi il ministro ad immaginare quale”.
Mi unisco senza esitazione alcuna alle conclusioni di Augias che invita il ministro a pesare maglio le sue esternazioni: “avrebbe meno titoli sui giornali ma eviterebbe di fare ulteriore danno”

lunedì 26 maggio 2008

Le indulgenze, Lutero e le SISS

MaestraLeila, in arte Leila Moreschi, intervenendo su Orientamenti & Disorientamenti in tema di PISA e competenze degli insegnanti cita un passo del fu ministro Fioroni che commenta, egli stesso, il PISA “«Credo che dobbiamo rivedere per gli insegnanti il sistema dei master e dei corsi di aggiornamento. Perché in questo campo si è verificata una situazione simile a quella che Lutero condannava a proposito delle indulgenze: è certo il lucro di chi vende le indulgenze, ma non è affatto certa l'acquisizione del posto in Paradiso»

Dopo “impressioni” raccolte al volo sul senso delle SISS (tra le più benevole “SISS, la CEPU dell’apprendimento) , ecco una autorevole presa di posizione (anche se il citato Fioroni seguendo una moda imperante potrebbe sempre dire: “non volevo dire questo”) su come anche iniziative nate per scopi lodevoli (qualificare gli insegnanti), vivendo in certa atmosfera e cultura (ed entrando, quindi, a pieno titolo nelle dinamiche reali anche se sotterranee che muovono parecchia accademia), abbiano perduto per strada tutta la loro autorevolezza riducendosi ad un diplomificio e ad una ulteriore pedina da giocare nella catena del potere.

Ma che sia proprio così?



giovedì 15 maggio 2008

Cosa meglio dei LO rappresenta la nostra scuola e la nostra formazione oggi?

La pur breve discussione che è stato possibile tenere nella parte finale del mio workshop al Moodle Moot di Padova sono emersi quelli che, secondo me, sono alcuni dei veri temi della scuola e della formazione oggi.

Ma andiamo con ordine; domando se l’approccio che ho appena presentato sia applicabile nelle realtà dei partecipanti. I diversi interventi convergono su una questione: è un modello certamente adeguato a far si che le persone trovino utile la formazione (cioè apprendano) ma di problematica applicazione perché chi partecipa alla formazione non vuole fare troppa fatica. I pochi che partecipano alla formazione (una grande fatica a “tirarli dentro”) non vogliono perdere tanto tempo e, soprattutto, non vogliono essere troppo impegnati.

Il mio approccio (che, comunque, rispecchia lo stato dell’arte sull’apprendimento), per contro, richiede che le persone lavorino sodo, facciano delle cose andando oltre la mera lettura di un testo, lavorino in parte da soli ed in parte con altri colleghi del corso (le basi concettuali dell’approccio le ho sintetizzate nelle slide 6 – 19). E tutto questo per far si che al termine della formazione i partecipanti siano in grado di fare qualcosa con quanto è stato oggetto della formazione.

L’idea che sta alla base dell’approccio proposto è, cioè, che si faccia della formazione che serva, una formazione che venga trovata utile per chi si è formato.

Una idea peregrina? Pare, che nelle condizioni in cui opera oggi la formazione, proprio di si.

La chiacchierata conferma che le persone non hanno una immagine tanto positiva della formazione (vi è la convinzione che la formazione serva poco) e che questo atteggiamento sia dovuto in buona parte ad esperienze precedenti di formazioni che sono state, appunto, poco utili.

E’ logico, quindi, che non si sia tanto disponibili a fare fatica per una attività ritenuta quasi inutile. E’ logico che si faccia tanta fatica a “tirare dentro” le persone. E’ logico che una volta “dentro” ci si accontenti di “guardare”, non si abbia voglia di “collaborare”, non si abbia voglia di “fare”, si faccia fatica a “conversare”.

E’ altrettanto logico che fintanto che non si offrono esperienze positive, l’atteggiamento non cambierà.

Ma siamo drammaticamente dentro ad una spirale che si avvita all’ingiù.

Il primo vero problema è, quindi, come proporre e far apprezzare esperienze positive, cioè come invertire la marcia ed attivare un circolo virtuoso.

Altri problema, provocato anche questo da chi organizza la formazione, è quale formazione proporre.

Credo che si sia fatta e si continui a fare tanta formazione inutile, formazione per problemi che non ci sono, formazione per problemi non formativi, formazione solo perché ci sono i soldi (del contribuente) per fare formazione e non perché c’è un problema di carenza di conoscenza e competenza.

La prima condizione per cui una persona voglia formarsi è che esista, per lui e nella sua percezione, un problema reale, un bisogno reale, un problema ed un bisogno attuale e che a questi si offrano soluzioni praticabili.

Per fare buona formazione è, pertanto, necessario che chi concepisce, progetta ed offre formazione, ri-tari la propria pratica e cominci a mettersi in ascolto dei problemi e dei bisogni dell’utente abbandonando la supponenza di chi si ritiene il depositario del sapere ed è pronto ad accusare chi non accoglie con entusiasmo le loro offerte di non essere in grado di percepire i sui stessi bisogni, di avere atteggiamenti difensivistici, di non voler mettersi in discussione e non voler cambiare ….

Nell’attesa che venga quel giorno (Gigliola Cinquetti in “non ho l’età”?), diamo in pasto ai nostri svogliati studenti/partecipanti/utenti esperienze attraenti, facili, leggere, che non richiedano troppa fatica mentale, che non facciano perdere troppo tempo. Tanto, per quel che serve ciò si impara, meno si fatica meglio è ……

Lunga vita, quindi, ai Learning Object. E che siano affascinanti, stupefacenti, pieni di movimento, musica ed effetti speciali, che non facciano fare troppa fatica, che si possano far “fruire” (neanche si trattasse di un’opera d’arte) con un semplice click ed un drag-and-drop tenendo a riposo il cervello.

Credo proprio di dovermi ricredere sui LO e di dovermi riconvertire se, come formatore, voglio tirare a campare!

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Sul tema vedasi anche il mitico Mario Agati in Cubi, supposte e learning object 2.0



mercoledì 23 aprile 2008

I dolori di un (non più) giovane insegnante


Nelle lettere ad Augias ne La Repubblica del 17 aprile un professore di liceo si lamenta perché a scuola arrivano studenti sempre meno preparati, incapaci ad affrontare i carichi di lavoro di un percorso liceale, con i genitori pronti a difendere i figli e ad accusare, andando anche dal preside, i professori stessi. Si aggiunga, poi, che sono i dirigenti scolastici a non volere che si faccia opera di dissuasione dei meno adatti per non diminuire il numero degli iscritti, e la misura è colma. E conclude: "quel che conta è solo ostentare voti fasulli in un tripudio da fiera delle vanità".
Tutte cose che facilmente si riscontrano, nulla da dire. Tutto condiviso anche dal saggio Augias (è solo merito di qualche bravo insegnante se la scuola ancora funziona). Mi domando, però: prima di approdare al liceo, quale formazione e quali insegnanti hanno avuto questi liceali “inadatti”?

Se quelli sono i risultati, devono aver avuto solo insegnanti incompetenti o che non hanno inciso per nulla. Non credo sia proprio così. Tutti adeguati gli insegnanti alle superiori, tutti inadeguati gli insegnanti delle scuole precedenti e gli studenti.
Credo, piuttosto, che una volta completate le elementari dove é quasi sola didattica, e passate anche le medie, dove un po’ di didattica ancora si fa, con l'arrivo alle superiori pare quasi che la didattica (l’attenzione, cioè, ai processi di apprendimento) conti poco o non serva. Basta trasmettere i contenuti secondo la struttura della disciplina. Memorizzazione di conoscenza dichiarativa (periodi storici o letterari, fatti e personaggi….),esecuzione meccanica di conoscenza procedurale (gli algoritmi delle procedure matematiche). Ma preoccuparsi di dare un senso a tutto questo? Sono c...i di chi apprende? Il knowing why, il capire il perchè chi lo cura?
Forse qualche problemino di didattica ce lo potremo avere... O no?

Possiamo pensare che i ragazzi d'oggi con tutte le opportunità che hanno di esercitare il pensiero critico (si, per le cose che interessa loro ragionano ben di più di quanto non si creda), di argomentare, di ricercare, esplorare, sperimentare, si accontentino di ascoltare e ripetere ciò che gli insegnanti ed i libri dicono senza voler dare un senso al tutto? Forse per un paio di settimane, si ma dopo la pena cresce di giorno in giorno ed il risultato è quello che vediamo e che (giustamente) indispone tanti insegnanti.

domenica 30 marzo 2008

AIF ed e-learning: tra crisi e sviluppo

A Bologna il 27 marzo la prima conferenza AIf dedicata alle tecnologie nella formazione

Apre il presidente Pier Sergio Caltabiano che afferma che, per quanto riguarda l’e-learning, non c è stata l’evoluzione che ci si sarebbe aspettati, ne negli States, ne in Italia. Abbiamo vissuto una fase di innamoramento enfatizzato ma le possibilità per una maggiore espansione ci sarebbero prestando più attenzione all’apprendimento

Claudio Dondi, dal suo punto di vista internazionale afferma che anche se da molti l’e-learning viene considerato in crisi, non lo è nella pratica. Certamente, se ci riferiamo alla facilitazione dell’accesso alla formazione ed alla economicità della formazione, le delusioni ci sono tutte (= non è vero che le tecnologie facilitano l’accesso alla formazione e non determinano suoi minori costi). Può essere in crisi anche come termine …..

Mi fa molto piacere trovare pubblica conferma a cose che vado dicendo da anni, compreso l’abbandono del termine di apprendimento elettronico ...

Dondi riporta dati che danno l’uso didattico delle tecnologie in crescita con un trend del 20 – 30% annuo. Non dice, però, cosa sia in crescita. Nelle attività didattiche vere e proprie o nel supporto organizzativo e logistico delle attività formative. Due dimensioni totalmente diverse.

E’ in consistente calo il modello “delivery” di contenuti (courseware e LO) e stanno emergendo molte nuove e differenziate forme di … e-learning.

A margine della conferenza chiedo a Claudio che aria tiri circa l’uso del termine, sempre più equivoco, di e-learning. La risposta: ci sono molte istanze affinché il termine venga abbandonato ma si continua ad usare sia perché, quanto meno a livello di senso comune, aiuta ad identificare il di che cosa si sta parlando ma, soprattutto, perché “tengono” termini come e-government, e-health e, per riflesso è opportuno esista anche l’e-apprendimento.

Personalmente preferisco un lessico più preciso …..

Alberto Colorni, METID già presidente SIeL, interviene nel contesto dei nuovi …e-learning. Cito solo la sua conclusione: ”Che con l’e-learning si apra un era di dilettanti anche nella formazione? No, replicherei io, non c’è questo nuovo rischio, nella formazione i dilettanti ci sono sempre stati.

Luigi Guerra, preside di scienze della formazione a Bologna centra in pieno la questione delle questioni: quale è il pensiero didattico che sta dietro l’e-learning? Se non si hanno buone basi di pedagogia e didattica “normale” non si farà mai una buona didattica con le tecnologie e cita Picasso: “Per andare oltre la forma bisogna conoscere la forma” Condivisione assoluta (anche perché lo predico da secoli).

Interessanti anche due altri spunti: Individualizzazione dei percorsi formativi; ma cosa vuol dire? Non è neoliberismo formativo. E sul ruolo del tutor nell’e-learning: il tutor normalmente è un pre-precario. Sbagliato, deve essere un docente.

Riprende il tema Mario Rotta, uno che di tutoring online se ne intende. Mario ci racconta la sua visione della formazione dell’e-tutor, una formazione che deve essere dinamica e continua e non limitata alla trasmissione delle conoscenze dichiarative che fanno parte del suo mestiere. L’insieme di conoscenze coinvolte è molto più ampio ed anche le strategie didattiche per la sua formazione devono essere più articolate e complesse. Importante, quindi, la riflessione critica su casi, lo studio di strategie, l’apprendistato con un esperto, una formazione continua. Mi pare che il messaggio di Mario sia “meno teoria e più esperienza”.

Sono seguite alcune relazioni sull’accessibilità che non ho seguito per il mio poco interesse per la cosa e perché volevo rifinire la mia presentazione del pomeriggio (qui le slide) alla luce di quanto era stato detto.

In sintesi, un bel convegno in cui non si è avuto paura di ammettere tutti gli errori del passato per rifondare il futuro. Complimenti ed un sincero ringraziamento a Stefania Panini per l’organizzazione dell’evento.

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PS

Una mia riflessione finale tra crisi e sviluppo dell’e-learning: siamo in una fase ancora primordiale della didattica con le tecnologie ……

martedì 25 marzo 2008

Contrabbando di innovazione

Pare proprio che il semplice e pur sensato uso delle tecnologie digitali e di internet sia, di per esso stesso, una innovazione.

Basta che una attività che prima veniva svolta in forma analogica, quando passa sul digitale, diventa una innovazione.

E certo che dare modo ad uno studente universitario fuori sede di conoscere via internet il programma dei prossimi appelli piuttosto che andare in facoltà e consultare una bacheca, è un aiuto non da poco, così come poter dialogare con i professori via e-mail piuttosto che andare al ricevimento è una comodità, come anche è un plus poter ascoltare e vedere sul proprio iPod le lezioni del prof. di turno, soprattutto se durante la lezione “dal vivo” ci si era addormentati per la noia….

Quindi, nulla da dire per l’uso delle tecnologie digitali e di internet nella scuola e nell’università; ci mancherebbe altro …. ma per poter parlare di innovazione ci manca proprio altro … il miglioramento della didattica che porta al miglioramento dell’apprendimento.

Facevo tra me e me queste riflessioni leggendo un trafiletto nel penultimo numero de L’Espresso (n. 11, pag. 195) in cui si da notizia delle mirabilia che stanno facendo le nostre università (nello specifico, la Federico II che consente di scaricare sul proprio iPod le lezioni), cui non sono da meno quelle americane (…dove le tecnologie stanno entrando prepotentemente nella didattica accademica …. avendo un database con le registrazioni di ben 300 corsi). Ma, udite udite, ancor più proiettati nel futuro sono i giapponesi …una cui università ha inaugurato il primo corso sui misteri delle piramidi egizie da seguire sul telefono cellulare.

Non so se a trovare innovative queste applicazioni, tanto da meritare il passaggio sulla rivista, siano stati i diretti interessati che si sono premurati di comunicare la buona novella alle agenzie stampa o se il giornalista (Francesco D’Errico) si sia trovato a corto di notizie di una scuola che, finalmente, funziona ……

A quando qualche storia di vera innovazione?

giovedì 13 marzo 2008

… come un libro stampato

Fresco fresco di udienza alla scuola di mio figlio. Mi fa riflettere una affermazione di una insegnante relativamente al profitto degli studenti: alcuni bene, altri meno; i compiti di una studentessa sembrano un libro stampato!

Capisco che uno studente che è bravo ti gratifichi in quanto conferma il tuo valore di insegnante: è bravo lui, sono bravo io.

Una gratificazione non da poco nel clima che circonda la scuola al giorno d’oggi (per inciso, mio figlio, ....è molto critico [nei suoi confronti] e ciò è antipatico. Concordo e sottoporrò il giovane ad adeguato trattamento “terapeutico”).

Ma, mi domando, se uno studente scrive “come un libro stampato” cosa avrà veramente capito? Cosa ci sarà di suo in quel che ha scritto? Cosa sarà in grado di fare con quello che ha, in questo modo, imparato?

Mi rincuoro ri-citando Jonassen: …. sarà anche possibile far si che egli studenti apprendano cosa noi vogliamo, ma in futuro ricorderanno ed useranno solo ciò che per loro ha un senso.

lunedì 10 marzo 2008

I 10 grandi errori dell’educazione

Il tutto, secondo Roger Schank (socratico, per sua stessa definizione), grande studioso dei problemi dell'apprendimento ed altrettanto grande provocatore. Di seguito un estratto da un suo libro, Engines for education. Il libro è del 1999 e si riferisce alla sua esperienza della scuola statunitense ma quasi tutto può essere applicato anche alla scuola nostrana di oggi.

1. La scuola agisce come se l’apprendere possa essere dissociato dal fare. In realtà non ci può essere apprendimento senza fare. Apparentemente, quando chiediamo agli studenti di memorizzare qualcosa, crediamo che si apprenda senza fare. Ma gli adulti sanno che si apprende meglio sul lavoro, dall’esperienza, cercando fare qualcosa. Anche gli studenti apprendono meglio allo stesso modo. Se non c’è nulla che gli studenti debbano imparare a fare in una determinata area di contenuto, potrebbe essere che, in realtà, non ci sia nulla che si debba imparare in quell’area.

2. la scuola crede che la valutazione sia parte del loro ruolo naturale
La valutazione non è il mestiere della scuola. Il prodotto deve essere valutato da chi lo userà, non da chi lo ha fatto. La scuola deve concentrasi sull’apprendimento e sull’insegnamento e non nel testare e nel comparare.

3. la scuola crede di essere obbligata a creare curricula standardizzati.
Perché tutti devono conoscere le stesse cose? Che mondo opaco sarebbe quello in cui tutti sanno solo le stesse cose? Lasciate che gli studenti scelgano dove andare e con adeguato orientamento sapranno scegliere bene e creeranno una società viva e diversa.

4. gli insegnanti credono di dover dire agli studenti cosa loro pensano sia importante sapere. Gli insegnanti dovrebbero aiutare gli studenti a fare ciò che gli studenti vogliono fare.

5. la scuola crede che l’istruzione possa essere indipendente dalla motivazione per un uso attuale.

Dobbiamo superare la convinzione che certe cose hanno valore ad essere conosciute anche se non le si userà mai. La memoria umana è felice di cancellare materiale che non ha uno scopo, allora, perché cercare di riempire le teste degli studenti con simile materiale? Prima di passare all’insegnamento, provate ad immaginarvi la ragione per cui una persona dovrebbe conoscere quella cosa e, nello stesso tempo, insegna quella ragione in modo che possa essere credibile.

6. la scuola crede che studiare sia una parte importante dell’apprendere.

E’ la pratica che è una parte importante dell’apprendimento, non lo studiare. Studiare è una completa perdita di tempo Nessuno ricorda mai le cose di cui si è ingozzato la sera prima degli esami, allora, perché farlo? La pratica, dall’altro lato, funziona. Ma devi praticare una abilità che tu adesso vuoi saper fare.

7. La scuola crede che attribuire voti sulla base del gruppo di età sia una parte intrinseca dell’organizzazione di una scuola. Questo convincimento è solo un incidente storico ed una idea terribile. La votazione sulla base del gruppo di età è una delle principali fonti di terrore a scuola per i ragazzi a scuola perché li porta pensare di non essere bravi tanto quanto altri o meglio di altri. Questi tipi di comparazione ed altri problemi sociali creano in molti studenti terribili problemi di sicurezza. Sarebbe meglio per tutti consentire agli studenti di aiutare i più giovani.

8. la scuola crede che gli studenti si impegnano solo se si devono misurare con i voti. Il voto serve come motivazione per qualche studente ma non per tutti. Alcuni studenti si sentono parecchio frustrati dall’uso arbitrario del potere rappresentato dalla votazione.

9. la scuola crede che la disciplina sia una parte costituente dell’apprendimento. Specie le persone più vecchie credono a questo, probabilmente la scuola ai loro tempi era rigida e severa. La minaccia di una regola rende gli studenti ansiosi ma anche li quieta. Ma non li fa imparare. Li rende paurosi dell’insuccesso, ma questa è un’altra cosa.

10. La scuola crede che gli studenti abbiano, di base, un intrinseco interesse ad apprendere qualunque cosa la scuola decida di insegnare loro. Quale studente sceglie di imparare la matematica piuttosto che imparare qualcosa sullo sport, sulle auto, sui cantanti? Ne trovare uno? Bene. Insegnategli la matematica. E lasciate gli altri studenti da soli.

venerdì 7 marzo 2008

Perchè cambiare? Basta dire che lo fai

Stavo scrivendo la consegna di una attività di apprendimento on-line per un corso di insegnanti che avevamo deciso (con il committente) di impostare attorno al lavoro di Roger Schank, quando ho fatto una veloce ricerca con Google Scholar per vedere se ci fosse qualcosa di recente che lui avesse scritto, quando mi imbatto sulla sua ultima column (28 febbraio 08, District Adnministration com) dal titolo Engaged Learning.

Dopo poche righe, ecco l’esplosione: Why do real change when you can just say that have done it? (perché cambiare realmente quando basta solo che tu dica che lo hai fatto?). Geniale!!! Sembra lo slogan di tanta innovazione fatta nelle nostre scuole e nei nostri centri di formazione.

Schank cita (si, cita, nome, cognome e … numero di scarpa) il caso della Cleveland State University che, in riprese televisive di un evento da essa sponsorizzato, evidenziava dietro lo speaker il motto: Engaged Learning.

Schank afferma di non conoscere nulla della Cleveland State ma di essere certo che lì ci sono lezioni noiose, assurdi requisiti, professori che non si preoccupano di nulla e studenti la cui unica preoccupazione è di superare ogni ostacolo posto di fronte a loro, proprio come in ogni altra università da lui conosciuta.

Andato nel loro sito, Schank legge che “Alla CSU, Engaged Learning significa che tanto che tu sia uno studente, un membro della facoltà o dello staff, ti puoi aspettare di avere un ruolo attivo nel tuo apprendimento. Ti puoi aspettare di essere coinvolto in modo tale che la tua esperienza alla CSU sarà differente da ogni altra che potrai aver avuto in diverse altre istituzioni. Potrai aspettarti che la tua esperienza di apprendimento alla CSU sia distintiva”

Non male, dice, Roger, e si domanda: ma come?

In 4 modi (dal loro sito web)

  1. un logo engaged learning sarà in tutti loro materiali pubblicitari. L’università avvierà una campagna pubblicitaria in primavera.
  2. un investimento di più di 200 milioni di dollari rimodernerà il campus principale dell’università
  3. l’università offrirà più di 400 opportunità di essere engaged nel campus attraverso una miriade di organizzazioni costruite attorno ad interessi comuni
  4. un sito web per gli engaged learners dove questi potranno raccontare come sono soddisfatti della loro esperienza alla CSU

Questo è tutto, nessun nuovo tipo di corso, nessuna nuova esperienza in modo da poter eliminare corsi e test convenzionali,nessun ripensamento su come un college potrebbe essere e su cosa potrebbero imparare i loro studenti. Nessun cambiamento, Solo soldi spesi in pubblicità ed in edifici.
Le università di Yale, Stanford e Northwestern non fanno pubblicità.
Ma lo slogan pubblicitario è così carino: engaged learning! Ma, mi domando, quanto costa?

Grande questo Schank!!! Una ragione di più per leggerlo.

lunedì 3 marzo 2008

Fruire a tracciare

Stavo distrattamente ascoltando Nepolis alla TV di Stato dopo una mattinata terminata tardi, quando sento pronunciare la fatidica parola "e-learning". Mi scuoto dal torpore ed ascolto: niente di meno che la soluzione ad ogni problema di apprendimento. L'ultima ricerca cognitiva che ha trovato la chiave definitiva per l'apprendimento? L'ultimo saggio di Spiro, Jonassem, Schank, Bereiter, Lave .....?
No, molto più semplice ed alla portata di tutti: la chiavetta USB con cui ti colleghi, scarichi, fruisci dove vuoi (è così comodo che la puoi prendere anche in tram, come il digestivo antonetto), tutto si traccia (cosa che non potevi fare con il classico CD pieno di contenuti), ritorni al tuo pc, ti colleghi, la tua tracciatura viene inviata a chissà chi ... e tutto è fatto.
Una grande invenzione di serissimi "ragazzi" di Trieste (li ho apprezzati parlato con loro più volte nel passato).
Ma è possibile che si continui ad avere una visione tanto ingenua, semplicistica e banale dell'apprendimento?
Ed è possibile che una simile visione sia "adottata" da tanti "esperti" di processi di apprendimento?
Non si apprende "fruendo", si deve mettere in modo il cervello; la tracciatura non ha nulla a che vedere con la valutazione, neppure quella di tipo più becero....
Non stupiamoci se così pochi adulti si formano (circa il 7%) trovando poco utile la formazione per il loro lavoro o se tanti utenti di e-learning ne hanno una visione pessima

giovedì 21 febbraio 2008

E dagli in testa a sta’ scuola

Non passa giorno che qualcuno (autorevole s’intende, non il primo blogger che passa per internet) non dispensi mazzate sui così detti della scuola. Papini proponeva di chiuderla già 90 anni fa; Jonassen proponeva di togliere l’obbligo scolastico in modo che trovandosi senza clienti la scuola si svegliasse da sé; Venter (quello cha decodificato il DNA) ironicamente dice che se è diventato quello che è il merito è della scuola che non ha distrutto la sua voglia di imparare. Biondi afferma che in questi ultimi 100 anni la scuola è rimasta sostanzialmente uguale a se stessa. E l’elenco potrebbe continuare.

Fresca fresca di ieri è la voce di Pennac che ha riempito quotidiani e TG con il suo ultimo libro “Diario di scuola” (Feltrinelli) in cui il tratto conduttore, leggendo le recensioni e sentendo le interviste, pare sia il paradosso dell’essere ultimi a scuola ma primi nella vita.

In un TG, poi, una lunga sequela di personaggi famosi che se la scuola avesse predetto il loro futuro sarebbero stati certamente obbligati a dormire sotto i ponti, ma invece …..

Che quella di sparare addosso alla scuola non sia l’ultima moda (che dura, però, da cent’anni) imputandole tutti i problemi della società? Francamente un po’ lo credo anch’io ma non credo che chi spara lo faccia a caso o per animare sentimenti populistici.

Le ragioni ci sono. Detta in breve: la scuola prepara ad una cosa e la società domanda altro. Un solo esempio: la scuola insegna a ripetere informazioni ma la società chiede persone capaci di risolvere problemi.

L’elenco potrebbe continuare.

Di sicuro non si può fare di ogni erba un fascio. Ci sono molti (ma non moltissimi) insegnanti che la scuola proprio non se li merita, ma nel suo insieme la scuola è ancora largamente inadeguata alle attese della società. La scuola è una istituzione conservatrice; molti soggetti influenti ( e tra questi metterei i sindacati) sono conservatori. Se dall’esterno il sistema politico è praticamente impotente, dal suo interno la scuola non si aiuta manifestando sempre atteggiamenti auto-difensivistici.

Cosa ci resta? Cosa ci può dare qualche speranza? Per adesso qualche enclave di eccellenza, qualche insegnante che sulla base di una propria personale etica di servizio verso il povero studente fa qualcosa. A proprio esclusivo rischio e pericolo.

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PS. Alcune posizioni sulla discontinuità scuola-vita reale

da: G. Marconato, E-learning (?) senza Learning Object: un approccio per attività di apprendimento (in stampa)

Il transfer dell’apprendimento dal contesto scolastico alla vita reale

Numerose ricerche dimostrano che il transfer dell’apprendimento sviluppato in contesti scolastici a quelli della vita reale è strettamente correlato con il grado di somiglianza dei due: più sono “simili” maggiore sarà la capacità della persona che ha appreso di usare le conoscenze sviluppate a scuola nelle situazioni reali in cui quelle conoscenze potrebbero essere utilizzate.

Il problema si pone in quanto il contesto di apprendimento scolastico è profondamente differente da quello reale di utilizzo della conoscenza.

Quattro secondo Resnick (1987) le cause di questa discontinuità: Cognizione individuale a scuola e condivisa fuori, attività mentale pura a scuola e manipolazione di strumenti al di fuori, manipolazione di simboli a scuola e ragionamento contestualizzato nella vita reale e, per finire, apprendimento di principi generali a scuola verso competenze specifiche richiese nella attività del mondo reale.

Jonassen (2002) afferma che “Le concezioni dell'apprendimento nei contesti educativi formali e quelli presenti nei contesti professionali e della vita di tutti i giorni (la vita reale) sono diametralmente opposti. Nelle scuole, nelle università e nella formazione aziendale, l'apprendimento è basato su contenuti, è fortemente organizzato e strutturato da regole e formalismi astratti…… (nella vita reale) l’apprendimento è basato su attività, non su contenuti. L'apprendimento è situato nei problemi che le persone stanno cercando di risolvere e le tematiche da apprendere emergono da quei problemi. L'apprendimento e la soluzione di problemi nel mondo reale si poggia sulla conoscenza distribuita in una comunità di pratica.”

Resnick L. B. 1987 learning in School and Out, in “Educational Researcher” 6 (9); traduzione italiana Imparare dentro e fuori la scuola in C. Pontecorvo, A.M. Ajello e C. Zucchermaglio (a cura) I contesti sociali dell’apprendimento, LED 1995

Jonassen, D.H. (2002). Engaging and supporting problem solving in online learning.

Quarterly Review of Distance Education, 3 (1), 1-13.

mercoledì 20 febbraio 2008

Learning Webs

Sarà per l’influenza, ma devo essere in vena di retrospettive. Dopo Papini, un ardito (è il caso di dirlo) salto di qualità, mi porta ad Ivan Illich ed al suo Descolarizzare la società (1971), quando al capitolo “learning webs” ( e non si riferiva certamente al web che noi tutti usiamo), afferma:

Un buon sistema educativo dovrebbe avere tre scopi:

  • a tutti coloro che desiderano apprendere dovrebbe offrire un accesso alle risorse disponibili in qualsiasi momento della loro vita;

  • dovrebbe incoraggiare tutte le persone che desiderano condividere la propria conoscenza a trovare le persone che vorrebbero apprenderlo da loro;

  • infine, dovrebbe fornire, a tutti coloro che desiderano presentare pubblicamente un argomento, l’opportunità di far conoscere la propria sfida

Pare proprio che si apprestasse ad inventare il web 2.0 prima ancora che internet fosse inventato. Un precursore, non c’è che dire.

I. Illich (1971) "Deschooling Society", Harper & Row
Ivan Illich, DESCOLARIZZARE LA SOCIETA', Mondadori, Milano 1983


Qui il testo completo (in inglese) del libro di Illich

La scuola dopo le nuove tecnologie

Complice una breve influenza che mi ha costretto a nanna per un paio di giorni, mi sono letto un libretto non propri nuovissimo che avevo in libreria da tempo. Intrigante il suo titolo: “La scuola dopo le nuove tecnologie”. Lo ha scritto Giovanni Biondi, direttore dell’INDIRE, una persona che sa il fatto suo in termini di scuola e di tecnologie.

La sua tesi è che i massicci investimenti fatti in questi anni nella scuola in tecnologie non hanno portato ad alcun cambiamento significativo: “…mentre la scuola fagocitava i nuovi media restando sostanzialmente uguale a se stessa …”.

Belle anche le immagini di repertorio sulla scuola che ci rimandano alla scuola dei nostri giorni, sempre uguale a sé stessa nella forma e nella sostanza (l’immagine del viaggiatore di fine ottocento catapultato nella società d’oggi non riconoscerebbe nulla se non la scuola devo averla letta già da qualche altra parte ….).

Pur nel realistico cinismo della sua analisi (nulla è cambiato, si sono accese speranza andate miseramente deluse, ma questo, aggiungo io è colpa di chi ha sempre e verso tutto attese miracolistiche come se i problemi fossero semplici e se a noi umani non competesse un qualche briciola di responsabilità), la conclusione è ottimista: occorre introdurre nuovi concetti pedagogici e didattici che lui vede (per dirla con poche parole) nel costruttivismo e nell’uso delle tecnologie per “costruire”.

Condivido questa conclusione anche se avrei articolato maggiormente la parte sui concetti utili desunti dal costruttivismo.

Secondo la buona logica di un colpo alla botte, un colpo al cerchio, concludo condividendo in pieno l’analisi che Biondi fa dei LO (learning object) vedendoci molto object e poco learning.

Una testimonianza, quella di Biondi, su cui riflettere per poter avere un atteggiamento meno superficiale e semplicistico circa il potere (che secondo me c’è) di innovazione delle tecnologie nella didattica, così come è avvenuto in tanti settori dell’agire umano.

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P.S. Cito Biondi a proposito della critica dell’uso delle tecnologie nella scuola, ma simile testimonianza si può trovare nei pensieri freschi e grondanti di sofferenza per le tante fatiche non riconosciute anche se di esito eccellente, di tanti insegnanti (cito Mario Agati le cui riflessioni sulle tecnologie a scuola sono dei capolavori di acume analitico, impegno professionale e sconforto ontologico) che incontro in rete nei loro blog (vedi qui di lato) e che con me partecipano alle attività della comunità Orientamenti e Disorientamenti negli usi didattici delle tecnologie, Giovanna, Annarita, Paola, Alessandro …..

venerdì 18 gennaio 2008

E-learning che funziona?

L’e-learning può funzionare?

Pare di si a leggere quanto riporta Piergiovanni Mometto da un articolo di US News del 10 gennaio. Mi sono andato a leggere l’articolo e riprendo qualche dato facendo qualche osservazione.
Sono circa 3,5 milioni gli studenti che, pare anche per risparmiare sulla sempre più costosa benzina, preferiscono starsene a casa e frequentare il college online.
Oltre alle rose, gli studenti pare stiano scoprendo anche le spine:

  • i corsi online sono più noiosi di quelli tradizionali
  • hanno un tasso di abbandono maggiore
  • portano a votazioni inferiori.

Un preside di college stigmatizza i propri professori che con il semplice copiare una sequenza PowrPoint, una compito preso da un libro di testo o un test in un LMS crede di aver creato un buon corso online!!!

Sconfortati da questi dati, i nostri stanno escogitando nuovi approcci al semplice mettere online i contenuti. Pare, addirittura, vogliano sfruttare le potenzialità di interazione offerta dal web.
Hanno, così, scoperto che gli studenti, se gli proponi di fare cose sensate (usare wiki, blog, lavoro collaborativo) lavorano in modo anche più duro ed intenso di quanto non facciano nelle ordinarie attività d’aula.
Pare che tra i principali criteri di successo ci sia la capacità di “fare comunità” e di stabilire una vera e propria conversazione tra gli studenti e gli insegnanti.

Uno studente commenta un simile approccio: piuttosto che stare 6 ore ad annoiarmi in classe, sono – in questo modo – immerso in attività di ricerca, pensiero, scrittura e …apprendimento.

C’era bisogno di aspettare il 10 gennaio 2008 ed un articolo divulgativo per scoprirlo?

mercoledì 5 dicembre 2007

PISA, la scuola che pende (e prima o poi andrà giù)

Avete presenti i dati dello studio PISA? La scuola italiana che continua lo slittamento verso le zone basse della classifica mondiale, la sua collocazione appena sopra di Grecia, Bulgaria e Romania.

Chi meglio di Jonassen potrebbe darci alcuni suggerimenti su come migliorare il nostro sistema scolastico, uscito alquanto malconcio dallo studio PISA?

Jonassen, che in questi giorni è a Bolzano per una serie di seminari per la formazione professionale è uno dei più accreditati scienziati internazionali che si occupano di scuola e formazione. 20 libri pubblicati negli ultimi 12 anni, decine di saggi pubblicati nelle più prestigiose riviste scientifiche internazionali, Jonassen si occupa di come sia possibile migliorare il “prodotto” della nostra scuola studiando come le persone apprendono e come si possa insegnare nel modo più efficace. Conosciuti ed applicati in tutto il mondo i suoi studi su come sia possibile migliorare l’apprendimento usando le tecnologie. Questa è l’area della consulenza che Jonassen sta dando alla Provincia di Bolzano.

Gli ho chiesto come, dal suo punto di osservazione a respiro internazionale, sia possibile agire per arrestare il declino sancito dallo studio PISA.

Due i punti su cui Jonassen ritiene sia indispensabile intervenire: gli assunti pedagogici e didattici su cui si basa la scuola e le competenze degli insegnanti.

La scuola dovrebbe preparare alla vita: mi piace crederlo, afferma Jonassen, perché la sua funzione non è mai cambiata, ma, purtroppo, non lo fa. La scuola dovrebbe supportare l’apprendimento ma non lo fa; la scuola prepara a … finire la scuola. La scuola prepara a memorizzare ed a ripetere informazioni, ma nella vita noi tutti dobbiamo risolvere problemi ma a questo la scuola non prepara.

La scuola insegna a conoscere le diverse discipline, non ad usare le discipline. Insegna matematica ma dovrebbe insegnare a pensare e ad agire come un matematico. Il risultato è che finita, con successo, la scuola si sa tutto in molte discipline ma non si sa cosa farsene di quelle discipline; sappiamo risolvere equazioni ma non sappiamo cosa siano ne a cosa servano se non a risolvere equazioni più complesse. La scuola dovrebbe insegnare a fare esperienza con la soluzione di problemi, non a studiare i contenuti messi gerarchicamente in fila nei libri di testo e nei programmi scolastici.La scuola dovrebbe, quindi, abbandonare il curricolo ed orientarsi alla soluzione di problemi.

Nelle nostre università in Missouri, continua Jonassen, i nostri studenti ottengono valutazioni di prestazione sempre superiori alla media nazionale; le nostre università da anni hanno abbandonato il curricolo e fanno didattica orientata alla soluzione di problemi.

Per questa scuola l’insegnante deve agire come un risolutore di problemi: questa è la sua primaria missione. Tutti i giorni, in classe, l’insegnante si trova a dover far fronte a numerosi e sempre diversi problemi di apprendimento, deve diagnosticare problemi e risolverli. Sono problemi di diagnosi, di progettazione, di pianificazione, di azione strategica. La classe è dinamica, i problemi cambiano di continuo e vanno affrontati in modo dinamico. Parecchi insegnanti, lo abbiamo rilevato attraverso numerosi studi, afferma Jonassen, hanno solo vaghe idee di cosa significhi apprendere e, di conseguenza, insegnano in modo altrettanto approssimativo. Le carenze della scuola sono spesso mascherate perché è difficile valutare cosa una persona abbia appreso. I nostri studenti lasciano la scuola senza che la scuola sia in grado di dire cosa abbia prodotto.

La conclusione di Jonassen? Solo se si comprendesse meglio l’apprendimento, la scuola sarebbe in grado agire meglio il proprio ruolo.

E, con un velo di pessimismo, considerato il suo orientamento progressista, afferma che la via più veloce per migliorare la scuola sarebbe quella di eliminare l’obbligo scolastico, gli studenti scapperebbero da una scuola che non serve e la scuola si dovrebbe rinnovare per mantenere i propri “clienti”