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mercoledì 10 settembre 2008

Una maestra "unica" al lavoro


La maestra “unica” Paola Limone, qui il suo bel blog, ci fa sapere che nel corso di questo nuovo anno scolastico attiverà un nuovo progetto che vedrà la sua classe sperimentare, per tutto l'anno scolastico, l'uso nella didattica di un computer per ogni bambino.
L’attività viene svolta nella classe 5° A della scuola Don Milani, Rivoli 1° Circolo, dalle insegnanti Paola Limone e Marina Sardone e si collega al progetto XO di Negroponte.
A promuovere il progetto “un computer per ogni studente” è la Regione Piemonte che prevede l'introduzione nell'anno scolastico 2008-2009 di computer ultraportatili a basso costo nella didattica consegnando ad ogni allievo una macchina e fornendo al docente unità didattiche subito utilizzabili.
Paola ci racconta: Con il prof Dario Zucchini dell'Istituto Majorana ho lavorato alla preparazione dei computer scegliendo i software ritenuti più utili, stilando schede di descrizione (dando particolare importanza a link di esperienze già fatte nelle scuole e reperibili nella rete) e preparando una white list con più di 800 siti per poter far navigare i minori che lavoreranno sui jumpc protetti dal Magicdesktop della Easybits.
La nuova fatica dell’instancabile e creativa Paola merita la nostra attenzione ed aspettiamo di leggere come sta andando.

Qui la descrizione del progetto.

mercoledì 30 luglio 2008

Insegnanti demoralizzati



Rileggendo Bruner (La cultura dell’educazione, 1996) mi imbatto in un passaggio che tocca la questione su cui spesso si arenano le nostre discussioni sul ruolo dell’insegnante: la solitudine di quei pochi che “ci credono”, il loro perenne lottare contro l’indifferenza della maggior parte dei colleghi e, non di rado, la resistenza (se va bene, a volte è anche peggio) del dirigente. Solitudine che genera sconforto e pessimismo verso ogni possibilità che le cose possano cambiare. Anche sul piano istituzionale.

Vediamo, dunque, cosa dice Bruner a tal proposito: “Nessuna riforma dell’educazione può decollare senza la partecipazione attiva e onesta degli insegnanti, disponibili e pronti ad aiutare e a condividere, a offrire conforto e supporto. […] E uno dei principali compiti di qualsiasi tentativo di riforma … è quello di convincere gli insegnanti a prendere parte al dibattito e a partecipare al cambiamento”. E cita cosa successe negli States dopo la pubblicazione del rapporto sull’educazione americana “A Nation at Risk” (1983) che suonava un campanello di allarme per la disastrosa situazione della scuola. La reazione fu che si criticò aspramente la professione dell’insegnante. L’insegnamento era stato trattato come un male necessario. E conclude: “così abbiamo alienato i nostri più importanti alleati sulla strada del rinnovamento”.

Cita, infine, uno studio di Ernest Boyer sulle convinzioni e le opinioni degli insegnanti nei cinque anni che seguirono la pubblicazione del citato report: “Siamo turbati dal fatto che gli insegnanti della nazione rimangono così scettici. Perché gli insegnanti, più di qualunque altro, sono demoralizzati e in genere poco impressionati dalle azioni di riforma intraprese fino a questo momento? [….] in tutte queste materie gli insegnanti non sono mai stati coinvolti […] In realtà il risultato più preoccupante di questo studio è questo: più della metà degli insegnanti intervistati sono convinti che in generale … il morale degli insegnanti sia notevolmente sceso.”

Che dire: mal comune mezzo gaudio? E’ da augurarsi che non vada così anche se le premesse ci sono tutte. Un esempio: avete visto dove sono naufragate le buone intenzioni della Gelmini?

giovedì 17 luglio 2008

Il suicidio delle SSIS


Le SSIS sono morte, evviva (e basta)! Si, le SISS sono morte e non per mano di un killer. La morte era stata annunciata da Fioroni ma è sopraggiunta con la Gelmini. Se di omicidio si tratta, è solo apparente.

Le SSIS sono morte per essersi suicidate. Si avete capito bene: nessuno le uccise ma si sono uccise da loro stesse.

Il mistero è subito spiegato.

Quando sono state istituite, le SSIS avevano avuto un mandato chiaro e fortemente sostenuto sul piano politico.

Le SSIS sono, però, cadute subito nelle grinfie delle università che le hanno gestite all’interno della propria cultura autoreferenziale.

L’opportunità offerta dalla SSIS è stato presto agita in termini di opportunità di potere, di spartizione amicale e clientelare delle risorse, opportunità di collocare parenti, mogli ed amanti; opportunità di piazzare le proprie pubblicazioni ed i propri servizi integrativi.

Niente di più e niente di meno di quanto avviene di frequente nelle nostre università.

Ovvio, quindi, che il prodotto fosse quello che è stato (buone solo per il titolo, buono solo il tirocinio – fuori dalle università, ovviamente, le CEPU dell’apprendimento…..).

Adesso che le SSIS sono chiuse, chi farà la necessaria formazione degli insegnanti?

Realisticamente qualcuno ha detto che sarà, comunque, difficile fare peggio.

martedì 24 giugno 2008

Cos’è la “disciplina”?


Quasi per caso, in effetti stavo cercando altro (serendipty?), mi imbatto in un “vecchio” libro che ho nella mia biblioteca (Conoscere l’insegnamento, di Teresa Russo Agrusti, 1992) che mi da modo di comprendere dove nasca il problema che oggi abbiamo in tutte le scuole: come trattare le “discipline”, come superare le “discipline”, perché lavorare per “problemi” e non per “discipline”.

Mi aiuta l’eccellente disamina storico-filosofica fatta dall’autrice e la premessa etimologica.

Il latino disciplina discende da discipulus che a sua volta deriva dal termine disco il cui significato primo è apprendere, imparare per via di istruzione o pratica. Il latino disciplina ha la sua traduzione italiana in istruzione, insegnamento, educazione, lezione, scuola: Nella pratica, il termine ha finito per passare da un significato legato alla “funzione dell’apprendere” a quello di “modalità di realizzazione dell’apprendimento” per, poi, assumere quello di “insieme delle conoscenze raggruppate secondo criteri specifici che costituiscono materia d’insegnamento e di studio”.

Siamo, cioè, passati da un significato legato ad un percorso e ad una strategia di apprendimento ad uno legato all’organizzazione di conoscenze.

Maggiormente illuminante trovo, però, l’analisi che la Agrusti fa riferendosi alla nascita delle discipline. Ai primordi, l’uomo non aveva un sistema di conoscenze precostituito e formalizzato cui attingere le proprie competenze, aveva solo problemi da risolvere che risolveva sperimentando, per tentativi ed errori. L’uomo, in questo modo, accumulava esperienze, conoscenze ed abilità di tipo diverso che piano piano sistematizzava ma in modo parcellizzato, al solo scopo della loro organizzazione e formalizzazione. Per tesaurizzare quanto appreso si precedeva, cioè, alla teorizzazione dell’esperienza, dell’abilità e della competenza.

Si vede, quindi, come secondo questa logica, il concetto di disciplina testimoni una trasformazione dell’apprendimento da “problematico” a specialistico, da globale a settoriale.

Attraverso la cristallizzazione dei diversi campi di indagine, le discipline in ambito scolastico sono diventate “materie di insegnamento”, sempre più isolate le une dalle altre, sempre più stereotipate nei contenuti e sempre meno espressione di quelle abilità di fondo che ne giustificano la funzione.

Due tra le conclusioni dell’autrice indicano, per me, la via per la ricomposizione della conoscenza e dell’abilità:

  • Le discipline vanno assunte in ambito didattico quali “categorie di pensiero”applicabili a diversi fenomeni e che ne evidenziano alcuni specifici aspetti, fenomeni che rimangono sempre complessi, problematici ed interdisciplinari;
  • il momento della formalizzazione disciplinare dei contenuti (la parte che per noi sarebbe l’ “insegnamento della disciplina”), è successivo (non precedente) alla comprensione degli stessi ed ha una funzione di catalogazione per l’archiviazione, la memorizzazione e la successiva utilizzazione dei medesimi.

Come dire, le “discipline” sono tutt’altro che un insieme di contenuti. Perché mai ci siamo ridotti a trattarle come tali?

mercoledì 11 giugno 2008

La scuola italiana? Mediocre


Che la scuola italiana sia mediocre lo dice (anche) la neo ministra della (pubblica?) istruzione, tale Gelmini. Quattro le mediocrità secondo la ministra:

  • mediocre nell'erogazione
  • mediocre nei compensi
  • mediocre nei risultati
  • mediocre nelle speranze
La mediocrità che più mi spaventa è l'ultima della lista: "mediocre nelle speranze". Chi va a scuola non può che avere mediocri speranze per il proprio futuro visto quanto al scuola potrà loro dare.
Abbiamo, quindi, una scuola che ha anche ucciso il futuro delle nuove generazioni.
Mi domando, se la scuola non riesce a dare ai giovani, non dico una formazione che serva loro ma neppure la speranza che il futuro sarà pieno di possibilità, cosa ci sta a fare?
Già la società nel suo insieme ha fatto la sua parte per uccidere il futuro, adesso ci si mette anche la scuola che lo scopo di nutrire non solo le mente ma anche i cuori ha da sempre avuto?

Seconda riflessione sugli stipendi degli insegnanti: da sempre credo che due siano le figure centrali per il futuro di una società: i medici e gli insegnanti. I primi perchè si preoccupano di tenere in vita (biologica) le persone e garantire, così, loro un futuro; i secondi perchè si preoccupando di tenere in vita le persone dal punto di vista delle funzioni umane superiori: l'intelletto, il pensiero, la ragione, la sensibilità .....
Per i medici la situazione è abbastanza buona (anche se si deve assistere allo scandalo dei - colleghi - psicologi della mutua trattati passati "dirigenti" per grazia sindacale e con stipendi di 3 - 4000 €) ma per gli insegnanti siamo a livelli appena dignitosi.
Credo che agli insegnanti vada garantito uno stipendio adeguato ad un lavoro a tempo pieno (38 ore tutte passate a scuola) che attragga persone che vogliono fare l'insegnante perchè è un mestiere che piace e sul quale ci si può mettere passione, non perchè è un mestiere che lascia tanto tempo libero o in attesa di meglio.

lunedì 26 maggio 2008

La solitudine dell’innovazione


Da una mail di scambio professionale con una collega insegnante:

…… Sono così sfiduciata... Con la nostra progettazione siamo, direi fermi! O quasi :-(
Ci credi se ti dico che con i colleghi interessati (ripeto, due, 2!) non ci si è ancora ri-confrontati?

Ma ci credi se ti dico che NEPPURE tutti i colleghi sono al corrente di questo progetto? (Nota dunque l'operato della dirigenza....)

Ma si può lavorare in queste condizioni?

Ti passa la voglia di progettare!

Sapessi quante volte ho sollecitato...e: "sì, dobbiamo rincontrarci", "dopo i consigli di classe", "butto giù qualcosa... poi lo metto sul server..."

Questo è "clima" per "innovazioni"?

L'unica cosa che ho potuto capire è da uno dei due colleghi l'intenzione di seguire i ….-suggerimenti, dall'altro... no, non ho potuto capire nulla, è quello del "butto giù qualcosa"!

………………ancora una volta mi rendo conto di quanto ci sia da imparare... e vorrà dire che io continuerò a cercare di imparare!

Ma con i colleghi parliamo linguaggi troppo diversi. E' questo, non ci si capisce, non si è sulla stessa lunghezza d'onda... ci sono troppe cose che vediamo diversamente.

Io, la dico con Socrate, "so di non sapere" e vorrei "sapere". Mi trovo sospesa però in due mondi troppo distanti uno dall'altro: i miei contatti, se vogliamo a volte solo letture, in rete (vedi insegnamenti e materiali di ……………….!) e ambiente di lavoro. Hai voglia cercare di cambiare qualcosa, cercare formazione ..., lo fai da sola! Da cui, insoddisfazione, risultati didattici che non sono quelli che vorresti..... ecc eccc.

Questo è. Al momento sono più che scettica, non mi interessa più nulla, continuerò per la mia strada.... io, con i ragazzi non mollo! :-)

Una "storia" di vita scolastica e di innovazione purtroppo non isolata.
Una testimonianza di come si lavori nel giorno per giorno.
Fatti ed emozioni che non si ritrovano nei saggi e nei libri degli esperti ma nelle vite di insegnanti



Le indulgenze, Lutero e le SISS

MaestraLeila, in arte Leila Moreschi, intervenendo su Orientamenti & Disorientamenti in tema di PISA e competenze degli insegnanti cita un passo del fu ministro Fioroni che commenta, egli stesso, il PISA “«Credo che dobbiamo rivedere per gli insegnanti il sistema dei master e dei corsi di aggiornamento. Perché in questo campo si è verificata una situazione simile a quella che Lutero condannava a proposito delle indulgenze: è certo il lucro di chi vende le indulgenze, ma non è affatto certa l'acquisizione del posto in Paradiso»

Dopo “impressioni” raccolte al volo sul senso delle SISS (tra le più benevole “SISS, la CEPU dell’apprendimento) , ecco una autorevole presa di posizione (anche se il citato Fioroni seguendo una moda imperante potrebbe sempre dire: “non volevo dire questo”) su come anche iniziative nate per scopi lodevoli (qualificare gli insegnanti), vivendo in certa atmosfera e cultura (ed entrando, quindi, a pieno titolo nelle dinamiche reali anche se sotterranee che muovono parecchia accademia), abbiano perduto per strada tutta la loro autorevolezza riducendosi ad un diplomificio e ad una ulteriore pedina da giocare nella catena del potere.

Ma che sia proprio così?



domenica 27 aprile 2008

Insegnamento tra istinto e professione

Un commento di Giovanna ad un mio post, mi fa venire la voglia di riflettere a 360o sull’insegnamento e sugli insegnanti.

Nel giro degli insegnanti che frequento per ragioni professionali (non tantissimi) conosco alcuni autentici professionisti, ma sono la minoranza. C'é un discreto numero che deve aver avuto la vocazione sbagliata e non se ne accorge. Il plotone è fatto di persone che fanno una didattica istintiva accompagnata, talvolta, da buona volontà, con risultati a volte anche buoni. Sono gli "insegnanti nati”, come ci sono gli “imprenditori nati” (ho conosciuto artigiani con la 3^ media capaci di business di immenso valore, quando certi masterizzati alla Bocconi non andavano oltre la ripetizione di formula prese dai libri della Harward). Sono pochi gli insegnanti nati, ma sul plotone degli “istintivi” credo valga la pena investire.

Contrappongo didattica istintiva a didattica professionale perché la prima poggia su teorie implicite, spesso ingenue e semplicistiche dell’apprendimento. La didattica professionale, invece, è riflettuta, consapevole, è fatta di continue scelte tra opzioni che portano a risultati differenti, si basa su una visione consapevole, articolata e complessa dell’apprendimento.

Raramente si nasce “insegnante professionista”; si inizia, il più delle volte con un insegnamento istintivo e di fronte ai primi problemi, gli “eletti” iniziano a riflettere sulla propria pratica didattica, si confrontano con colleghi più esperti, leggono qualche libro ed attraverso tentativi ed errori approdano alla didattica professionale. La formazione formale serve fino ad un certo punto; vale molto di più una pratica riflessiva magari aiutata da un buon maestro, uno che ha più esperienza.

Ma attenti, fare esperienza non significa necessariamente avere esperienza. Tanti rimangono novizi per tutta la vita…..

venerdì 25 aprile 2008

Il bravo insegnante parla poco

Si, è proprio vero. Se dovessimo trovare uno slogan che riassume tutta una filosofia didattica, credo si possa proprio dire che: "Il bravo insegnante parla poco". Parla poco perchè il vero apprendimento si costruisce quando lo studente fa. Lo studente non apprende quando sta ad ascoltare, impara quando riflette, quando usa le (poche) cosa che l'insegnante, o un libro, ha detto per fare qualcosa.
Ho fatto questa riflessione dopo aver letto un lunghissimo commento (quasi un saggio) al un mio post "La scuola che funziona".
In questo commento (di "Anonimo", peccato) si riportano tante citazioni (Papert, Eco, Riffkin, Toffler..) che dipingono con eccellete sintesi lo stato della scuola per quanto riguarda l'approccio metodologico ed offrono vie d'uscita. Riporto solo questa citazione ed invito ad andarsi a leggere quel lungo commento-saggio.

Come già predicava Lao Tse il vero insegnamento è senza parole, perché “le troppe parole si esauriscono presto e il saggio pratica l’insegnamento senza parlare, lasciando sviluppare gli esseri senza ostacolarli".

mercoledì 23 aprile 2008

I dolori di un (non più) giovane insegnante


Nelle lettere ad Augias ne La Repubblica del 17 aprile un professore di liceo si lamenta perché a scuola arrivano studenti sempre meno preparati, incapaci ad affrontare i carichi di lavoro di un percorso liceale, con i genitori pronti a difendere i figli e ad accusare, andando anche dal preside, i professori stessi. Si aggiunga, poi, che sono i dirigenti scolastici a non volere che si faccia opera di dissuasione dei meno adatti per non diminuire il numero degli iscritti, e la misura è colma. E conclude: "quel che conta è solo ostentare voti fasulli in un tripudio da fiera delle vanità".
Tutte cose che facilmente si riscontrano, nulla da dire. Tutto condiviso anche dal saggio Augias (è solo merito di qualche bravo insegnante se la scuola ancora funziona). Mi domando, però: prima di approdare al liceo, quale formazione e quali insegnanti hanno avuto questi liceali “inadatti”?

Se quelli sono i risultati, devono aver avuto solo insegnanti incompetenti o che non hanno inciso per nulla. Non credo sia proprio così. Tutti adeguati gli insegnanti alle superiori, tutti inadeguati gli insegnanti delle scuole precedenti e gli studenti.
Credo, piuttosto, che una volta completate le elementari dove é quasi sola didattica, e passate anche le medie, dove un po’ di didattica ancora si fa, con l'arrivo alle superiori pare quasi che la didattica (l’attenzione, cioè, ai processi di apprendimento) conti poco o non serva. Basta trasmettere i contenuti secondo la struttura della disciplina. Memorizzazione di conoscenza dichiarativa (periodi storici o letterari, fatti e personaggi….),esecuzione meccanica di conoscenza procedurale (gli algoritmi delle procedure matematiche). Ma preoccuparsi di dare un senso a tutto questo? Sono c...i di chi apprende? Il knowing why, il capire il perchè chi lo cura?
Forse qualche problemino di didattica ce lo potremo avere... O no?

Possiamo pensare che i ragazzi d'oggi con tutte le opportunità che hanno di esercitare il pensiero critico (si, per le cose che interessa loro ragionano ben di più di quanto non si creda), di argomentare, di ricercare, esplorare, sperimentare, si accontentino di ascoltare e ripetere ciò che gli insegnanti ed i libri dicono senza voler dare un senso al tutto? Forse per un paio di settimane, si ma dopo la pena cresce di giorno in giorno ed il risultato è quello che vediamo e che (giustamente) indispone tanti insegnanti.

martedì 2 ottobre 2007

La scuola nuoce alla salute (cognitiva) degli studenti?

Leggo ne L’Espresso n. 39 del 4 ottobre, ora in edicola, che Craig Venter, quello che, per intenderci, ha decodificato il genoma umano, nella sua autobiografia afferma che, se ha conseguito i risultati che ha conseguito è perché non è stato rovinato dalla scuola: “Penso che tra gli elementi che tra gli elementi che hanno fatto di me uno scienziato di successo c’è stato anche il fatto che il sistema educativo non sia riuscito a distruggere la mia curiosità.…… mentre la creatività dei miei coetanei veniva distrutta dal sistema educativo, io facevo di tutto pur di mettere le mani su qualcosa da costruire …"

Il tema che la scuola faccia più male che bene ritorna spesso nella letteratura.

Ricordo anni fa, quando, negli States, iniziavano ad entrare nel linguaggio e nella pratica corrente strategie didattiche come l’apprendimento riflessivo, l’apprendimento attraverso l’esperienza, attraverso l’errore, il peer-teaching, era in voga l’espressione “Learning without teaching”. Apprendimento senza insegnamento. In quel periodo, nel movimento per una scuola democratica, veniva diffusamente usata una espressione che scimmiottava la prima: Learning despite teaching, apprendimento nonostante l’insegnamento.
Oltre la spiritosa battuta, si faceva notare come i risultati che la scuola, nonostante tutto, produceva erano solo limitatamente dovuti alle azioni didattiche intenzionalmente svolte dagli insegnanti ma, o erano frutto di processi casuali, non intenzionali, non guidati, o erano frutto del lavoro autonomo svolto dagli studenti. In ogni caso, con una limitata incidenza del ruolo svolto da parte dell’insegnante, con un rapporto costi/benefici (risorse spese per insegnare ed apprendimento conseguente) decisamente ridotto.

Ricordo, inoltre, il movimento pedagogico contrario ad una scuola focalizzata sulla valorizzazione della sola intelligenza “convergente” dimenticando quella “divergente”. Per non parlare di Gardner e le sue “intelligenze multiple”.

In questa riflessione ci può tornare utile il pensiero di Jonassen su “la vaga idea su come si apprende” qui ripresa. Jonassen afferma:
Faccio un esempio: gli insegnanti che incontro sono spesso esperti nella loro area disciplinare ma sono dei novizi per quanto riguarda la soluzione di problemi di didattica. Si potrebbe, quasi, dire che pochi professori sono esperti perché mancano di esperienza autentica. Infatti, il protocollo che usano per risolvere problemi didattici non è basato sulle teorie dell’apprendimento o sulla progettazione di messaggi ma piuttosto su vaghe assunzioni su come “insegnare”. Nella mia esperienza, questi assunti creano una barriera allo sviluppo di una comprensione più sofisticata sulla natura del problema
E cita un caso:
A livello nazionale (USA, ndt) meno del 25% dei professori di ingegneria ha fatto pratica come ingegnere e questa mancanza di esperienza li porta a fare un insegnamento basato sulla trasmissione di contenuti organizzati gerarchicamente, non nel modo in cui sono usati dai professionisti dell’ingegneria. L’esperienza può essere acquisita solo attraverso una grande quantità di pratica riflessiva.
E conclude:
Ecco il vero problema di un sistema di istruzione basato su assunti pedagogici errati.

Che non sia questa una delle chiavi di volta per comprendere il problema dell’insegnamento?

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PS

Jonassen ci offre qualche altro elemento per comprendere la natura del problema:

………è l’iper semplificazione che viene fatta a scuola di concetti complessi che non consente l’apprendimento dell’essenza di quei concetti e la persistenza, in caso di apprendimenti superficiali, di rappresentazioni ingenue di fenomeni (teorie personali) che prendono il sopravvento sulle teorie scientifiche quando l’applicazione di quelle conoscenze avviene al di fuori dei contesti in cui sono state apprese.
La consuetudine scolastica genera conoscenze valide solo in contesti scolastici: qui, infatti, si favorisce: lo sviluppo di conoscenza con modalità astratte (pensando, illusoriamente, che l’astrattezza del contesto in cui sono sviluppate favorisca, poi, le più disparate applicazioni), l’applicazione a problemi tipicamente scolastici, si valutano gli apprendimenti con esercizi scolastici, si semplificano i concetti perché, altrimenti, non sono appresi, non si considerano le conoscenze già possedute dall’individuo che, comunque, sono presenti, agiscono e, spesso, prevalgono sulle nuove.


http://www.giannimarconato.it/allegati/pubblicazioni/convers_jonassen_2005.pdf

giovedì 13 settembre 2007

E' necessario saper insegnare per fare l'insegnante?

E' necessario saper insegnare per fare l'insegnante?. Potrebbe sembrare una domanda retorica ma non lo é. La questione é reale.

Giorni fa stavo tenendo un workshop sul uso delle tecnologie all'interno e per un corso di pedagogia e didattica.

Un insegnante, forse cogliendo un malcontento diffuso sui contenuti e sui metodi delle lezioni precedenti esclama, forse all’indirizzo degli organizzatori del corso: “ma questi non hanno capito che siamo informatici, economisti, matematici, mica psicologi o pedagogisti”.

Preso alla sprovvista, mi scappa un "si, è vero che siete informatici, economisti, matematici....., ma siete anche insegnanti di informatica, economia, matematica...". Dal silenzio seguito e dalle occhiate traverse ho capito di averla detta grossa.

Fine del aneddoto e via con una raffica di domande, queste si, retoriche.

  • E’ necessario che chi fa di mestiere l’insegnante conosca, quanto meno, le teorie dell’apprendimento per comprendere l’ “oggetto” del suo lavoro?
  • E’ necessario che chi fa di mestiere l’insegnante conosca, quanto meno, un certo numero di tecniche didattiche per scegliere quella più adatta alla situazione che si trova ad affrontare?
  • E’ necessario che chi fa di mestiere l’insegnante conosca le principali problematiche che si presentano in una situazione educativa per saperle fronteggiare?
  • E’ necessario che chi fa di mestiere l’insegnante conosca le principali problematiche psicologiche che caratterizzano una situazione di insegnamento e di apprendimento?
  • E’ sufficiente che per insegnare una persona si affidi al buon senso, all’intuizione, all’esperienza?
  • Esiste uno specifico professionale dell’insegnare o basta che una persona conosca una disciplina per poterla insegnare?
  • Per insegnare basta imitare il comportamento di quelli che furono i nostri più bravi insegnanti?

Io credo che per insegnare sia necessario conoscere 3 cose:

  1. la propria disciplina (l’oggetto)
  2. come insegnare (le basi del mestire)
  3. come insegnare la propria disciplina (la specificità dell’insegnamento di una disciplina).

Non so, però, quanto sia condiviso questo convincimento. Vedo parecchia gente affrontare il lavoro di insegnante con leggerezza, come fosse un mestiere che tutti possono fare, basta avere un titolo di studio, un minimo di cultura e buon senso.

Tutto questo avendo ben presente che non tutte le dinamiche della riuscita scolastica sono nelle mani dell’insegnante pur professionalizzato; soprattutto nei casi più difficili.

A questo proposito vi rendo partecipi di una annotazione che mi ha fatto Jonassen proprio ieri in una conversazione via mail per mettere a punto una attività su cui stiamo lavorando. Gli chiedevo se fosse utile definire anche un metodo per la diagnosi dei problemi di apprendimento riscontrati in aula dagli insegnanti e lui mi risponde (copio ed incollo):

I am not sure how useful this will be. These kids are adolescents, who are controlled more by their hormones than their brains. From the information that I have, I believe that they are academically challenged; they have poor academic self-concepts (low self-efficacy), and so they see school as irrelevant. They have short attention spans, so tasks cannot be too complex. Those are difficult problems that will not be solved completely by any strategies.

Gli chiederò di approfondirmi la questione perché rimane il problema dell’insegnante che va in un'aula difficile, non sa che pesci pigliare e ne esce pazzo.

Assolti, quindi, gli insegnanti che non sono in grado di affrontare TUTTE le situazioni didattiche e TUTTI i problemi di apprendimento.

Colpevoli, però, quelli che non sanno affrontare con competenza le situazioni definibili “ordinarie”.

PS: leggo, poco prima di pubblicare su la Repubblica nella rubrica "lettere" di Corrado Augias, il titolo della lettera principale: Riforma della scuola? Insegnare bene.

Passo e chiudo.

domenica 5 agosto 2007

Sono deficiente

Questo dovremmo essere obbligati (da una circolare ministeriale) a scrivere almeno cento volte, tutti noi docenti, allievi, esperti e, soprattutto, genitori, all'inizio del nuovo anno scolastico.
L'invito viene dall'autorevole penna (e pensiero) di Claudio Magris nel Corriere della Sera di oggi che, dalle pagine della sezione Cultura, stigmatizza quello che possiamo definire il malcostume - sport nazionale dello sparare addosso al povero insegnante che si permette di richiamare l'indifeso fanciullo perchè usa il telefonino in classe o di far scrive per 100 volte "sono un deficiente" al bullo di turno alla sua ennesima aggressione.
Consigli di istituto, psicologi, sociologi politici mobilitati ad esprimere solidarietà al pupo, a tutelarlo dal trauma della punizione.
Ed il povero insegnante? Sbattuto in prima pagina come il mostro del film di Bellocchio (1972).
Perchè? Per me, è la rappresentazione di una cultura che è la commistione di mammismo iper-protettivo, di voujerismo mass-mediatico, di esibizionismo istituzionale con la connivenza delle istituzioni scolastiche se sembrano cadute in una depressione senza ritorno tanto è la rassegnazione al non poter cambiare e tanto poca è l'energia per andare oltre l'ordinaria amministrazione (e, forse, un po' di depressione ce la mette anche l'insegnante, no?).
Vi invito a leggere, quindi, il bell'articolo "Elogio del saper punire. Modesta proposta di una circolare ministeriale che riporti l'educazione (e i castighi) nelle scuole".
Per un approccio psicodinamico alla tematica, vi invito a leggere Gustavo Pietropolli Charmet quando parla del "bambino speciale", del "bambino messia", in "I nuovi adolescenti" (vedi aNobii).

giovedì 2 agosto 2007

Le scuole per il 21^ secolo. Tematiaca 7, Insegnanti, i protagonisti del cambiamento

La questione viene posta nel documento della Commissione Europea attraverso la domanda n. 7: Come fornire al personale scolastico formazione e sostegno per affrontare i problemi che si presentano?

Sulla base del documento della Commissione, questo è lo scenario sul versante insegnanti cui ci si trova di fronte. Gli insegnanti:

  • operano con gruppi di allievi molto più eterogenei rispetto a prima
  • sono tenuti ad avvalersi delle opportunità offerte dalle nuove tecnologie,
  • devono rispondere alla domanda di insegnamento personalizzato
  • devono assistere gli alunni affinché diventino autonomi nell'apprendimento permanente
  • possono anche dover svolgere mansioni decisionali o manageriali derivanti dall'aumento dell'autonomia delle scuole

Tutto questo in un contesto in cui:

  • si registra un comportamento aggressivo nei confronti degli insegnanti
  • la maggior parte degli insegnanti lascia la professione appena ha la possibilità di farlo.
  • sono numerosi i fattori ambientali e organizzativi causa di stress e di malattie connesse allo stress negli insegnanti. (Education International (EI) European Trade Union Committee for Education (ETUCE) Study on Stress: The cause of stress for teachers, its effects, and suggested approaches to reduce it.)

La mia esperienza in merito a cominciare dalla conclusione: l’insegnante è (o dovrebbe essere) il professionista dell’apprendimento ed è in questa prospettiva che ci si dovrebbe formare.

Sulla questione, con il collega Peter Litturi abbiamo prodotto un documento dal titolo: “Formazione professionale, apprendimento e tecnologie. L’insegnante come professionista dell’apprendimento” Su Scribd l’intero documento.

Della questione mi interessa sottolineare le implicazioni della connotazione “professionista”. Cosa vuol dire essere un professionista? Chiarito questo siamo già in discesa per pensare alla formazione degli insegnanti.

Le Boterf dice che il cliente può avere fiducia nel professionista perché:

  • non trascurerà niente di importante della situazione del cliente
  • non trascurerà niente di importante della situazione – problema
    e del suo contesto
  • saprà far fronte all’incompletezza delle prescrizioni
  • saprà prendere delle iniziative pertinenti
  • e’ aggiornato sullo « stato dell’arte » del mestiere
  • saprà spiegare perchè e come agisce
  • saprà apprendere dalla propria esperienza
  • saprà mobilizzare una rete professionale di risorse
  • rispetterà le regole etiche e deontologiche

Perrenoud, citato da Patrizia Magnoler al SIEL 07 di Macerata dice:

  • Il professionista realizza in autonomia delle operazioni intellettuali non routinarie che impegnano la sua responsabilità.
  • Il professionista è autonomo non solo perché è in grado di autocontrollare il suo operato, ma anche di guidare, al tempo stesso, il suo apprendimento attraverso un’analisi critica delle sue pratiche e dei risultati di queste.

Anche sulla base di questi ed altri contributi, credo che la competenza principale dell’insegnante sia quella della riflessività (il “professionista riflessivo” di Schon) che gli consente di apprendere dalla propria esperienza, di identificare i gap da colmare, di identificare la strategia più coerente per intervenire in un contesto: attraverso la riflessione saprà, in buona sostanza, contare su sé stesso.

Sono consapevole dei mille problemi di contesto che non rendono ne semplice ne facile per l’insegnante aggiornarsi per insegnare come-si-dovrebbe (normativa, retribuzione, riconoscimento, ecc….) ma, sono certo, debba valere il principio della responsabilità: nello spazio di potere che mi è dato, cosa posso fare io? E farlo. Senza remore.